lunedì 27 ottobre 2014

Recensione – in anteprima – Noi

Non è un periodo semplice questo. Non che abbia qualche problema eh, sto benissimo. Magari non proprio in forma, ma questo è un problema che ho sempre avuto. La chiapponaggine ha sempre la meglio sulla ginnicità e quindi, ecco, il fuori forma è la mia condizione naturale. Ma questa non è la sede adatta per parlare della mia precoce anzianità e dalla mia nota avversione per l'attività fisica (cioè, il divano mi trasmette emozioni migliori e decisamente più positive di quanto sia in grado di fare un tapis roulant).
Ma, appunto, dicevamo. Sto bene ma quest'anno ho provato per la prima volta quella brutta malattia che si chiama blocco del lettore. Ho letto pochissimo, senza un reale perché. E, di conseguenza, mi sono ammalata del blocco del blogger che mi fa recensire i libri, certo, ma con grandissima difficoltà. Non posso, però, non parlarvi di Noi di David Nicholls perché, insomma, voi lo sapete che io lo adoro alla follia e vengo presa da un raptus bimbominkiesco ogni volta che ne sento parlare.
Mi scuso in anticipo e in ginocchio su ceci e fagioli borlotti per quanto leggerete. Avrei potuto fare di meglio, lo so. Ma, ecco, i brutti periodi capitano a tutti. E quindi... Noi.

Titolo: Noi
Autore: David Nicholls
Editore: Neri Pozza
Pagine: 431
Prezzo: 18 € (disponibile dal 30 ottobre)
Il mio voto: 4 piume

Trama

Douglas e Connie si conoscono alla fine degli anni Ottanta, quando il muro di Berlino era ancora in piedi. Trent’anni e dottore in biochimica, Douglas trascorreva allora i giorni feriali e gran parte del weekend in laboratorio a studiare il moscerino della frutta, il drosophila melanogaster. Connie, invece, divideva il suo tempo con una «combriccola di artistoidi», come li chiamavano i genitori di Douglas: aspiranti attori, commediografi e poeti, musicisti e giovani brillanti che rincorrevano carriere improbabili, facevano tardi la sera e si radunavano a volte a casa di Karen, la sorella di Douglas piuttosto promiscua in fatto di amicizie, a bere e discutere animatamente. Ed è durante una festa nel minuscolo appartamento di Karen, in mezzo a sedici persone accalcate intorno a un asse da stiro, che Douglas si imbatte per la prima volta in Connie: capelli ben tagliati e lucenti, un viso stupendo, una voce sensuale, distinta ed elegante con i suoi vestiti vintage cuciti su misura, attillati e perfetti. Sono trascorsi piú di vent’anni da allora e Douglas e Connie sono sposati da decenni e hanno un figlio, Albie. Douglas ha cinquantaquattro anni e la sensazione di scivolare verso la vecchiaia come la neve che cade dal tetto. Connie è sempre attraente e Douglas la ama cosí tanto che non sa nemmeno come dirglielo, e dà per scontato che concluderanno le loro vite insieme. Una sera, però, a letto, Connie proferisce le parole che Douglas non avrebbe mai voluto sentire: «Il nostro matrimonio è arrivato al capolinea, Douglas. Penso che ti lascerò». Una storia finita, aggiunge Connie, con i diciassette anni di Albie che sta andando via di casa per proseguire i suoi studi d’arte altrove. Una storia da suggellare con un ultimo viaggio da fare insieme: il Grand Tour nelle maggiori città d’arte europee per preparare Albie a entrare nel mondo degli adulti, come facevano nel Settecento. Douglas, cui la vita sembra letteralmente inconcepibile senza Connie, decide che non può terminare tutto cosí, che l’amore non può svanire solo perché si è finito di occuparsi di un figlio. Accetta perciò di partire per quell’ultima vacanza insieme, un Grand Tour non per diventare piú colto, sofisticato e ricco d’esperienza come facevano nel Settecento, ma per riconquistare la moglie, e quel figlio che sembra scontento dell’uomo che sua madre ha scelto per metterlo al mondo. 

La mia recensione 

Potrei dirvi che Noi è la storia di Douglas, biochimico di trent'anni che si innamora di Connie, artista o, più propriamente, aspirante tale. La loro storia, tra alti e bassi, giungerà a quella notte in cui, circa vent'anni dopo, il libro ha inizio. Ma Noi, in realtà, non racconta solo l'evolversi di una storia d'amore. Noi, attraverso le parole del pedante, polemico e fastidiosamente intransigente Douglas, racconta il complesso groviglio di sentimenti che lega i componenti della famiglia Petersen.
Mi piace Nicholls, mi piace il suo modo di disegnare i personaggi, di renderli così reali e coerenti con le loro azioni da far sì che il lettore pensi di conoscerli davvero. Mi piace perché, seppur con una prosa fluida e leggera, riesce a trattare argomenti di un certo spessore. Mi piace perché i protagonisti dei suoi romanzi non sono mai eroi, non sono macchiette e non ci sono personaggi belli e personaggi brutti; ci sono invece fallimenti, malinconie, difetti, intensi sentimenti, amori incondizionati o finiti o appena nati, amori per altre persone, per i figli, per i luoghi, per i ricordi. Ma, soprattutto, ci sono persone. Sì, esatto, persone. Anzi, per essere più corretti dovrei utilizzare l'espressione "esseri umani", con le loro paure e con i loro difetti che rischiano di incrinare rapporti, di mettere a repentaglio la propria e l'altrui felicità.
Proprio per questo motivo ho trovato interessante la scelta dell'autore di narrare in prima persona; solitamente non apprezzo in particolar modo la prima persona perché molti autori non resistono alla tentazione di voler apparire forzatamente accattivanti, talvolta rivolgendosi al lettore e sforzandosi di apparire simpatici a ogni costo. Probabilmente, invece, questo romanzo non mi sarebbe piaciuto così tanto se l'autore avesse scelto di utilizzare la narrazione in terza persona.

venerdì 17 ottobre 2014

Ciarlando allegramente di... #10

Niente, non potete capire quanto mi costa scrivere questo post. Avete presente quelle volte in cui dovete fare qualcosa che, se da un lato vi va di fare, dall'altro no? Ecco, io da un lato vorrei (e potrei soprattutto) scrivere mille mila post, essere più presente su Facebook e Twitter e poi, invece, niente. Sfuma tutto così. Apro la pagina – una qualunque di queste – e la richiudo due o tre ore dopo senza aver scritto nulla. Non lo so, è così. Sarà che questo è il periodo in cui 3/4 degli animali si prepara al letargo e, pure io, in un certo senso, mi sento un po' in modalità semi-letargo attiva. 
Insomma alla fine, dopo una buona dose di violenza verso me stessa, eccomi qua. Basta vegetare e guardare il soffitto, basta arrendersi al blocco del blogger. Parliamo, piuttosto, di Le stanze buie di Francesca Diotallevi.

Il romanzo racconta la storia di Vittorio Fubini, maggiordomo presso la casa del conte e della contessa Flores a Neive, un piccolo comune in provincia di Cuneo, nel 1864.
Vittorio è un uomo tutto d'un pezzo, freddo, rigido e un po' troppo severo sia verso se stesso che e soprattutto verso gli altri. Un uomo che, si potrebbe dire, vive solo ed esclusivamente per il suo lavoro e che riversa in questo una dose importante di passione. Un pignolo, un inrtransigente, un perfettino. 
È la morte dello sconosciuto eppur sempre presente zio, Alfredo Musso, che segnerà un profondo cambiamento nella vita di Vittorio. 
Si ritroverà, infatti, a dover abbandonare Torino, la sua città, per ricoprire il ruolo del defunto zio presso la casa dei conti Flores.
Dimora che, però, nasconde un mistero che tutti i membri della servitù sembrano conoscere ma di cui nessuno è disposto a parlare. 
Strani rumori si palesano la notte, sbalzi di temperature improvvisi, singolari accadimenti confondono la mente di Vittorio che non si fermerà fino a quando non verrà a capo del misterioso segreto custodito dalle stanze di casa Flores. Di una stanza in particolare, chiusa ormai da tempo e che nessuno, in quella casa, è in grado di aprire perché, a possederne le chiavi, è solo Amedeo Flores.
La trama, che riportata in appena una manciata di righe da me che non sono una scrittrice e nemmeno una che si diletta a scrivere le quarte di copertina, sembra banale e tipica della peggior partita a Cluedo della vostra vita. Invece vi assicuro che non è affatto così. Perché l'ambientazione, i personaggi e la scrittura attenta e minuziosa dell'autrice rendono questo romanzo più vicino a Jane Eyre e Downton Abbey che a Cluedo. Sì, sebbene si tratti di un esordio –che mi auguro vada bene così da spingere Francesca a scrivere un altro romanzo– di un'autrice italiana, l'ambientazione e l'aria che si respira tra le pagine di questo libro è la stessa di un romanzo inglese d'altri tempi. Un po' cupo a volte, ma della stessa, identica e grigia cupezza di cui i romanzi inglesi del 1800 sono impregnati. 
Coinvolgente, oltre allo stile dell'autrice, anche il modo in cui Francesca decide di approfondire la figura di Vittorio, con un susseguirsi di flashback ben posizionati che coinvolgono così tanto il lettore che, a un certo punto, non ci si ricorda più se il romanzo è un grande flashback con salti nel futuro o viceversa. Ma, credetemi, non ha davvero alcuna importanza. 
Si vede, si percepisce, che l'autrice abbia fatto un lavoro di precisione quasi chirurgica nella stesura di questo romanzo e si avverte anche la forte passione che Franscesca nutre per gli intrecci tipici dei romanzi classici. O meglio, io l'ho percepita senza che però abbia chiesto all'autrice se la nutre davvero. Secondo me sì. Consigliato, senza mezzi termini. E affrettatevi, ché come Jane Eyre questo è un romanzo da gustare in autunno.